Sentirsi male dopo la psicoterapia

Sentirsi male dopo la psicoterapia

Si dice in gergo tra Psicologi, che sono i primi che intraprendono, o dovrebbero farlo certamente, un percorso di terapia ed analisi individuale, che “se la terapia non fa male allora non funziona”. Cosa si intende precisamente però? Che un buon percorso psicologico debba farci soffrire per essere produttivo? No assolutamente, o quantomeno non in senso letterale.

E’ importante sapere, prima di tutto, che la figura del terapeuta è stata definita da numerosi autori come “un perturbatore strategicamente orientato”. Ovvero?

Ogni paziente, quando entra nella stanza di terapia, lo fa portando con sé la personale teoria del mondo, fatta di assunti, convinzioni, spiegazioni, che spesso e volentieri rappresentano uno specchio fedele del proprio modo di dare significato agli eventi di vita piuttosto che essere una rappresentazione fedele della realtà. Questa teoria, tuttavia, contiene spesso le coordinate della sofferenza individuale, dal momento che è il risultato, sempre, del tentativo inconsapevole di ciascuno di noi di “proteggersi”,  di spiegarsi eventi e situazioni che sarebbero troppo crudi nella loro verità, e dunque vengono riformulati. Pensiamo ad esempio ad un ragazzo che trascorre le sue giornate tra videogiochi e fumetti, che si lascia sfuggire in qualche occasione il desiderio di far parte di un gruppo di amici ma che, quando viene invitato, immancabilmente rifiuta e si nega. A domanda diretta del terapeuta sul perché, risponderebbe certamente perché non gli va o non gli interessa, ma ciò corrisponderebbe ad una riformulazione positiva ed alleggerita, invece, di importanti sentimenti di vergogna che prova ogni volta che si relaziona con qualcuno. Il terapeuta, allora, ha proprio lo scopo di metterlo in contatto con tutto questo, by-passando le spiegazioni e le ragioni che il ragazzo fornirà per giustificare questo comportamento, e lo metterà in contatto con quel sentimento di vergogna che tanto rifugge. E questo fa male. Non in senso fisico, ma inteso come uno scossone che viene dato ad un sistema che fino a quel momento ha vissuto credendo e seguendo certe regole del gioco che però ora, ad uno sguardo più attento, non sembrano più tanto vere. Sarà proprio questa, allora, la strada che porterà il ragazzo a tornare in contatto con il vero desiderio che ha, ovvero quello di appartenenza, rileggendo i suoi rifiuti come tentativi di proteggersi dai sentimenti di vergogna.

Dunque, la Psicoterapia “fa male” nel momento in cui scardina le nostre teorie del mondo, le nostre certezze, su noi e sugli altri, e ci riporta in contatto con tutto quel patrimonio di desideri ed esperienze che rappresentano la parte più vera di noi ma che nel tempo, per un motivo o per l’altro, abbiamo progressivamente abbandonato.